In campo per giocare a pallone non per vincere, ma per ritrovarsi

L’utopia nel pallone. Immaginate una quartiere degradato alla periferia di Roma, un centro sportivo fatiscente, pensate a tanta gente con grande voglia di integrazione, disabili mentali, minori in custodia giudiziaria, operatori sociali, psichiatri, alcolisti, madri, padri, bambini. Metteteli tutti assieme col sogno che dai tanti problemi si possa uscire, creando un destino comune e ridando ad ognuno speranza e fiducia. Se a fare da collante ci fosse il calcio, il progetto visionario, unico nel suo genere, non potrebbe che essere il Calciosociale. “Siamo nati nel 2005 – spiega entusiasta Massimo Vallati, il presidente – con l’idea di sfruttare le meravigliose potenzialità di uno sport che è ormai in gran parte business e malaffare. Volevamo ridiscutere le regole del calcio per cambiare  quelle che governano il mondo”. Beati gli ultimi.  E così, a tavolino, inventano uno sport che ponga come obiettivo l’accoglienza e il rispetto della diversità ma che, soprattutto, ruoti attorno all’ultimo, non al più forte. “Noi – spiega Paolo Masini consigliere comunale PD e grande sostenitore del progetto – riceviamo tantissime segnalazioni da cliniche di trattamento psichiatrico, da ASL e DSM, raccogliamo molti ragazzi che hanno problemi con la legge, ma anche gente comune, i nostri figli, persone che vogliono divertirsi facendo sport e che credono nella possibilità di vivere tutti insieme”. Ogni squadra, a cui quest’anno è stato assegnato il nome di un luogo simbolico della storia recente come Taharir, Plaza de Mayo, Soweto o Aleppo,  si compone di 8 + 2 giocatori (con un coordinatore-capitano) selezionati sulla base dei coefficienti.
I coefficienti. “All’inizio dell’anno – riprende Vallati – facciamo disputare delle amichevoli a tutti gli iscritti e una commissione dà a ogni giocatore un voto a seconda della sua abilità, da 1 a 10. Poi dividiamo i giocatori per categoria ed estraiamo a sorte in modo di ottenere squadre con un mix equilibrato di talento e speranza”. La Montgomery, a esempio, così intitolata in onore al luogo dove la famosa attivista Rosa Park rifiutò di alzarsi per far sedere un bianco sull’autobus, è composta da due giovani fortissimi (uno con problemi di droga), due disabili, due ragazze, tre minori (uno in custodia) e un over 40 (precauzionalmente in porta). Tutto gira attorno al campionato che si svolge da novembre a maggio e che vede coinvolte 12 squadre. Ma fuori dal campo gli ideatori costruiscono lungo tutto l’anno un percorso di incontri, viaggi, esperienze sociali e spirituali dove si parla di crescita, equilibrio, legalità e democrazia. “Per me – sorride soddisfatta Ilaria una giovane disabile punta inamovibile del Woodstock – il Calciosociale è una casa, l’occasione di uscire, incontrare e fare qualcosa per gli altri”. Totti testimonial. Una volta al mese due squadre a turno si affrontano nella loro sede in ristrutturazione battezzata ‘Campo dei Miracoli, in un match detto ’90° pensiero’, in cui vince chi fa più cose utili per gli altri. Una leggenda vivente come Francesco Totti, appassionato di questo progetto di calcio puro e rivoluzionario, dovrebbe disciplinarsi. “Se in una partita hai già segnato tre gol – ancora Vallati – da quel momento in poi la devi solo passare; i rigori, poi, li batte il calciatore col coefficiente più basso e la classifica più importante non è quella del capocannoniere, ma chi ha fatto più assist”. “Io gioco nella “Tienanmen” – dice un 17enne sudamericano agli arresti domiciliari, in campo col permesso del giudice – in onore dei ragazzi uccisi in Cina. Ma per me è molto più che una squadra, mi sento bene in mezzo a tanta gente brava che vuole solo aiutarti”. Le conversazioni, però, si interrompono. Comincia la partita.  L’arbitro? Non c’è. Nessun giudice di gara, quindi “Senza fischio d’inizio – spiega Marco un coordinatore – perché non ci sono arbitri né guardalinee, ognuno nelle due squadre, è tenuto ad ammettere se commette fallo o a “chiamarlo” se lo subisce.” Ma prima di tutto ci si prende per mano attorno al cerchio di centrocampo e si recita una preghiera interreligiosa laica, una sorta di rito umanista che richiama tutti al senso di fratellanza.  Il gol dell’integrazione Intorno al 10° del I tempo, si sviluppa una bella azione condotta da un giovane rumeno cresciuto nelle giovanili della Roma prima di finire in un giro di micro-criminalità. È un fenomeno, un coefficiente ’10’, che supera gli avversari come birilli. Poi, dopo l’ennesimo dribbling, si presenta solo davanti al portiere ma decide di passare al suo compagno dal coefficiente ‘1’, un ragazzino con ampi margini di miglioramento, che sbaglia clamorosamente a porta spalancata. I due si abbracciano come se avessero fatto gol. È l’azione simbolo di una serata di calcio romana, in una temperatura dicembrina sotto lo zero, che fa tornare a casa riscaldati.

Fonte Repubblica.it

 

 

 

 

 

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