“Giocando a calcio insegno Storia”
“Parlavano con lo slang di casa. Ma che facete o che dicete, all’inizio. I più difficili, all’inizio, entravano senza salutare. E magari ridevano, perché le loro paure passavano anche per la difesa di quel dialetto chiuso, un po’ sporco, del clan degli esclusi. Li ho corretti ogni volta, certo, senza giudicarli. Ogni giorno. Perché volevo che si stancassero prima loro, che imparassero a pretendere ascolto, a guadagnare il rispetto dei loro stessi pensieri, a esprimersi prima ancora che a concentrarsi sulla prestazione. Fino a quando non gli è venuto facile dire anche buongiorno”: Rosario Esposito La Rossa ha solo venticinque anni, è allenatore di una delle scuole calcio tra le più forti e popolose d’Italia, la “Arci Scampia” fondata nel 1986 da Antonio Piccolo, ma soprattutto è un educatore italiano. Uno dei silenziosi, modesti “maestri Manzi del 2000”. Giovanissimo erede, senza enfasi e senza incrollabili ideologie, dei maestri di strada come Cesare Moreno o Marco Rossi-Doria, un semplice innovatore nel paese che ha lasciato la scuola indietro, salvo le intenzioni di invertire la marcia del neo-premier Matteo Renzi. Un under 30 che come alcuni milioni di coetanei, a dispetto di quanto pensi qualcuno, non hanno mai nemmeno pensato di “preferire” la casa o smettere di coltivare ambizioni.
Ed è, in fondo, uno dei tanti, nascosti formatori nel mondo dell’insegnamento, del lavoro, del welfare, del volontariato italiano per i quali la scuola vera può cominciare anche “fuori dall’aula”, che pensano che le lezioni diano più frutto se non si impartiscono ma si costruiscono sfruttando le curiosità o gli ostacoli di ogni giorno, che lo stesso segreto dello sport comincia quando hai finito di giocare, e vive fuori dal campo di calcio così come quando scendi da un ring o ti tiri via da una piscina.
“La fiction? No, non l’ho vista, anche se ammiro molto come attore Claudio Santamaria e certo la figura di Manzi mi affascina”, sorride lui, messo a disagio dal paragone, anche perché più che maestro si sente “solo un mister”. È un timido con le idee molto chiare, e con le gambe forti e agili da terzino sinistro, Rosario. E ha due o tre concetti chiave per il suo stare con i ragazzini di 8, 9 o 12 anni, per dialogare con i loro genitori a volte analfabeti, o per fare da collante tra la società e la loro scuola istituzionale, magari andando a colloquio al posto di un padre detenuto. “Per me, la prima cosa da sconfiggere nella testa di questi bambini è la frase ‘tale albero tale frutto’, un’immagine che li condanna, li spinge ad aderire al destino già segnato, a rassegnarsi. L’altra mia strada maestra è: senza condanne e senza neanche pietismi. Voglio fermarli quando sbagliano perché è mio dovere essere scomodo, e perché conquistino il rispetto di sé, ma senza che io parli da un piedistallo. E l’altra cosa, forse la più importante per chi parte da qui: insegnare loro che il fallimento è nel conto delle possibilità, accettarlo come un gradino da cui ripartire. Glielo ripetiamo spesso, usando ciò che sta più a cuore a loro, il pallone. Ragazzi, qui nasce un campione ogni 10mila bambini, perciò dovete mettere in conto che non sarete un Messi o un Balotelli. Combattete e miglioratevi, ma mica per forza sarete dei fuoriclasse? Ecco perché abbiamo promosso un corso per pizzaioli e li abbiamo spinti a partecipare, intano la vita è fatta di onesto lavoro, e poi chi ha detto che uno sappia dove sta nascosto il proprio talento?”.
Lui, per primo, lo ha imparato a proprie spese. Rosario è nato e ha deciso di restare a vivere, a insegnare e portare lavoro – non solo come allenatore, ma con il suo lavoro di autore e organizzatore teatrale, con la proprietà collettiva della casa editrice “Cafiero e Marotta”, con l’associazione Vodisca – a Scampia: luogo simbolo del disagio, uno dei volti di Napoli più raccontati, anche abusati ma forse uno dei più carichi di risorse delle periferie nazionali. E da bambino è stato una promessa del calcio, Rosario: ha giocato da allievo nazionale nel Napoli e nel Pescara. Poi, a quindici anni, i fuochi della faida di camorra si sono scagliati con imprevedibile tragedia fin nella sua famiglia, deragliandone il percorso: in un raid di camorra è stato ucciso per errore Antonio Landieri. Riconosciuto come vittima innocente delle mafie, Antonio era suo cugino, era disabile, uno che non poteva scappare come gli altri per le sue difficoltà motorie e che quindi non ebbe scampo dalle pallottole in strada. Era il 2004. Dice Rosario: “Da quel giorno ho mollato con certi sogni. Ne ho aperti degli altri, che mi sembravano più urgenti. Mi sono avvalso, diciamo così, del diritto di non essere un campione”, torna a sorridere. “E la cosa incredibile che non potrò mai dimenticare è che, mentre i miei genitori comprensibilmente mi spingevano a tornare sui miei passi e a non perdere quella chance, il fondatore della scuola, il nostro Antonio, si chiama Piccolo di cognome ma è un grande e lui sì che è un maestro di vita, lui ha capito, mi è stato vicino, ed ha assunto su di sé contro tutti gli altri la scelta di vita che stavo facendo, anche se paradossalmente sembrava andare contro tutta la fatica che aveva fatto fin lì, per me, per farmi diventare un ottimo calciatore”.
La sua classe ideale oggi è composta da 60 allievi l’anno, tra gli 8 e i 9 anni. Ma la “scuola Arci” conta oltre 600 iscritti, e la cosa singolare, come racconta Rosario, è che “specie in periodi di crisi come questo, chi non può pagare la retta non la paga e chi può, spesso la paga anche per un altro. E in ogni caso, una parte degli utili serve a investire comunque sul territorio: perché io penso che impresa e sociale insieme non fanno un ossimoro, non solo è possibile, ma spesso è meglio ed è necessario. Perché mentre il volontariato ha bisogno del legame con la politica e del sostegno dell’istituzione, l’impresa va da sola, è autosufficiente e si fa rispettare di più perché crea lavoro”. Rosario fa tante cose, ma resta un “mister”, uno cui i ragazzini possono anche dare del “voi”, ma lo seguono fino a Potenza, come anni fa, in un giorno di pioggia battente per stare dietro a Libera e a don Ciotti, anche se magari hanno un fratello in carcere per camorra. Rosario ha imparato a smontare le contraddizioni: “Quando ho scelto di rimanere qui con loro, quando li ho visti mischiarsi insieme figli di professori e figli di carcerati, ragazzi borghesi che vivono a Scampia in parchi protetti e hanno paura a relazionarsi col prossimo insieme a quelli che non parlano una parola d’italiano, sembrano sfacciati ma hanno paure parallele, ho capito che qui facevo quello che avevo sempre desiderato: l’educatore. Ma con lo sport, la grande passione della mia vita”. E la vita si è incaricata spesso di fare di Rosario il mister, Rosario il primo maestro, il “Manzi” che gli ha fatto scoprire il mondo. “Un giorno”, racconta, “in una pausa del nostro allenamento, uno dei più piccoli, che non va mai a scuola guardava il Vesuvio all’orizzonte e pensando di non essere ascoltato ha chiesto al compagno: ma tu lo sai come sono morti quelli di Pompei, sotto l’eruzione? Il giorno dopo, ce ne siamo andati tutti al Museo Nazionale Archeologico, la più grande collezione greco-romana di reperti che racconta chi erano e come vivevano quelli morti là sotto”. Ecco, funziona così.
Un’altra volta, Ciro, il bambino che all’inizio diceva sempre “facete” e rideva della correzione e ora invece il sorriso lo mette sulla parola “scusatemi” se sbaglia un verbo, proprio lui aveva domandato all’insegnante quasi a sfidarlo: “Ma questo pesciolino Nemo che ci avete fatto vedere nel cartone animato, ma mica esiste veramente? Ci stanno nel mare dove io vado a fare i tuffi, in estate, a Mergellina?”. Rosario, il giorno dopo, ha portato Ciro e tutti gli altri ad annusare le vasche, i pesci e soprattutto il prestigioso viaggio nel tempo della Stazione Dohrn sul lungomare di Napoli. E poi, sempre col pallone, sono arrivate, aggiunge, “le lezioni di Fisica, ma non di educazione fisica. Ci siamo chiesti: scusa, e perché il pallone si ferma? E perché qui c’è una resistenza che su quel terreno non c’era? Un giorno, dopo tanto tempo, ricordo che uno di loro mentre scappava verso la porta gridava al compagno ‘dai, c’è la pioggia, sfrutta l’effetto attrito'”.
Ora l'”ufficio” di Rosario è uno stanzone bunker a nord di Napoli, stretto alveare nato originariamente come cabina di regia collegata al teatro di Piscinola: peccato che gli architetti delle burocrazie degli appalti s’erano scordati che non si fa un buco se hai muri spessi sei metri di cemento armato. Tanto ormai il bunker è zeppo di colori e fogli volanti e appunti di vita sulle cose “da ricordare” o “far capire” ai suoi ragazzi. Ogni giorno, loro entrano salutano sorridono e anche se la giornata è storta, provano a correggerla insieme. Facete, fate. Dicete, dite.
Fonte Repubblica.it
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